giugno 05, 2014

Cari morti

Quando si muore succede che si muore e ciao.
Però si dice pure che quando si muore si rivede tutta la vita. Tutti gli istanti della nostra vita. Tutto quello che abbiamo vissuto.
Pensavo questo oggi, praticando quello sport estremo che consiste nel portare il cane Lello a fare la passeggiata sul monte. A tal proposito  (divago adesso, ma sarò puntualissimo e ben centrato sul discorso poi) vorrei chiedere alla Redbull se potesse sponsorizzarmi. 

La passeggiata del cane Lello consiste in un continuo avventarsi, senza alcun preavviso, su cavallette, farfalle e lucertole. Spesso questi ortotteri, questi animali, esistono solo nella sua mente, quindi a niente vale scrutare il manto erboso o il ciglio della strada e gli anfratti tra le rocce per individuare la preda prima di lui, nella speranza di evitare, per quanto possibile, la fuoriuscita della spalla a causa dello strattone provocato dal guinzaglio.
A questo proposito, prima di proseguire concedetemi un piccolo spazio privato:

Cara Redbull, se siete interessati, a me farebbe molto piacere essere sponsorizzato da voi. Potrei portare in giro il cane indossando una videocamera Gopro sulla testa e filmando ogni momento. 
Gentilissima Redbull, avendo un età, ed essendo solitamente già provato dalla salita che affronto durante la passeggiata (vede, cara Redbull, vivo in collina e quando parto per la passeggiata ho solo due possibilità: andare in salita o in discesa. Non ci crederete ma queste due condizioni, qualunque sia la scelta iniziale, finiscono per verificarsi entrambe) essendo quindi provato dalla inevitabile salita, sono spesso malfermo sulle zampe e con il fiato corto. Credo che anche questo particolare, sopratutto il fiato corto, l’ansimare che potrei registrare in audio con la Gopro montata sulla testa, potrebbe aggiungere dramma al tutto. Probabilmente in una delle passeggiate, a causa delle zampe malferme, cadrò. Forse, con un po’ di fortuna, in un dirupo. 
Tutto questo verrebbe filmato in tempo reale e credo che potrebbe avere un pubblico magari per qualche speciale su canali tematici adeguati come il maschio Dmax.
Grazie per l’attenzione.

Oggi, portando a passeggio il cane Lello, forse a causa del principio di anossia del quale sono vittima ogni volta, ho pensato al fatto che quando si muore si rivede ogni istante della nostra vita. 
Non so se questo sia vero ma se qualcuno ha fatto questa esperienza lo pregherei di darmi smentita o conferma. 
Visto che se avete fatto questa esperienza probabilmente siete morti, potete farlo nel sonno (mio) tirandomi i piedi o mandandomi altri segni particolari che possa interpretare. Non vi chiedo di raccontarmi per filo e per segno tutto quanto (conosco la condizione tipica del fantasma che, solitamente, non comunica con frasi chiaramente comprensibili ma con botte nel muro, strisciare di catene, traballar di tavolini a tre gambe e via dicendo)  e mi accontenterò del modo a voi più congeniale.
Del resto, questo è il modo in cui parlate voi fantasmi, con un linguaggio vostro, criptico e di difficile lettura. Un po’ come i profeti e i divinatori del futuro che mai e poi mai direbbero “L’11 settembre del 2001 due aerei di linea si schianteranno sul world trade center di New York. In seguito a questo evento, reagendo a cazzo di cane, gli Stati Uniti invaderanno l’Irak”. No. I veggenti e i profeti preferiscono espressioni come: “Due cavedani d’arrostito brumo s’intaglieranno nella pampa d’oltremare, finché l’uomo con il coso minuscolo marcerà sulla minestra di dune”.

Portando a spasso il cane Lello ho pensato al momento in cui si muore e tutti gli istanti della nostra vita ci scorrono davanti agli occhi. Questo a meno che “La Montagna” di Games Of Thrones non vi abbia scoppiato la testa con le mani e i vostri occhi siano sparpagliati sul terreno, nel qual caso, sinceramente, non lo so. Non so se gli occhi devono essere integri per fargli passare tutta la vita davanti, forse prendo la cosa troppo alla lettera. Forse quelle che ci appaiono sono solo immagini mentali, come quelle dei sogni.
Ecco, cari morti. I sogni per esempio. Parliamone.
Passeranno anche tutte le cose sognate? Anche gli incubi orribili come quello dove scendevo nella stanza piena di scheletri o quello dove avevo il cesto di giocattoli con la luce verde sul fondo che quando arrivavo a toccarla mi risucchiava all’inferno?
E i sogni belli? Quelli nei quali ti svegli maledicendo la veglia? Rivedremo anche quelli? 
Non mi dispiacerebbe. 
Sono preoccupato per altro, però. Le partite a World of Warcraft, dovrò rivedere anche quelle?
Voglio dire, già rigiocarle sarebbe abbastanza inquietante, che ci vuole davvero tanto tempo per portare un Guerriero Non Morto al sessantesimo livello e uno Gnomo Ladro al quarantacinquesimo e un secondo Non Morto, ma Prete, stavolta, al cinquantaduesimo, ma starle a vedere soltanto, senza neppure poter muovere il mouse. Dio santo, sarebbe davvero una cosa crudele. Potrei trovarmi di nuovo nelle miniere a farmare minerali tutto il giorno? 
E, se si rivede davvero tutto, ci saranno anche le partite a Kick Off, sull’Amiga? Non ho più rivisto Kick Off, da tantissimi anni, mi ha divertito tantissimo ma non so se sopporterei di passare nuovamente ore e ore a giocare a Kick Off, con la grafica del tempo. Non credo che si upgradi la grafica dei giochi quando la si rivive in punto di morte. Succede? Battete un colpo se succede.

Ci sarà l’infanzia, in quel momento di trapasso? Ci saranno le corse nel prato di Panicagliora, con i cugini, le mazze di tamburo (sono funghi) lontane e gigantesche, visibili dalla terrazza di casa. 
Ci saranno i salti delle cavallette tra i piedi bimbi durante la corsa? Ci sarà il giorno in cui Carlo e Luca mi lanciarono come un sacco di patate giù da una balza ed atterrai con l’osso sacro sull’unico sasso disponibile in un Texas di erba sofficissima? Rivivrò quel dolore? Rivivremo tutti i nostri dolori? L’infiammazione del trigemino che mi venne a causa di quel dentista che mi sigillò un dente malato senza disinfettarlo a dovere? Ci sarà anche questo? Ci saranno le notti passate a guardare la finestra del mio primo amore, parcheggiato in una R4, fresco di patente, dipinto di Jack Daniel, come uno scemo romantico ubriacone, fermo sul sedile a guardare la sua finestra accesa, al quarto piano, aspettando anche soltanto di vederla passare per un istante. Ci sarà quel momento? Ci sarà quell’istante? 
La sua figura che appare, dietro il vetro opalino della finestra del bagno, il suo passare lenta. 
Non scomparire. Resta dove possa vederti. Non scomparire, e poi vederla scomparire ed aspettare ancora e intanto si fa notte fondissima e si beve un altro goccio, che fa Paul Newman e la luce si spegne e si riaccende di nuovo. Dio sia lodato, la luce del bagno, dietro alla finestra opalina si accende di nuovo. 
Lei passerà Eccola che passa. Amore, quanto cazzo pisci? Quante volte? Ma va bene. Piscia milioni di volte, io aspetterò ogni tuo trascorrere nel bagno, solo per poter vedere la tua forma distante. 
Ci sarà anche quel momento? Lo rivivrò? E rivivrò anche il momento in cui quel mio amore, dolcissimo primo amore, mi comunicò che la finestra che per tanti mesi avevo osservato come un agente della Digos era in realtà quella della vecchia, incontinente, vicina di casa?
Ci saranno le attese alla stazioncina di Pisa San Rossore, alle sette e diciassette, in inverno, ad aspettare il treno per Lucca, per andare al liceo, con i compagni che come fantasmi (sì, come voi fantasmi) ciondolavano appesi a delle Marlborine uscite da pacchetti da dieci, in un freddo pungente, insaccati in piumini anni 80, gonfi di una noia impronunciabile a parole, solo mimabile, ciondolando sul binario.
Allontanarsi dalla linea gialla.

La cosa mi spaventa. Se fosse vero, se davvero un giorno, spirando, rivivremo ogni istante della nostra vita, spero solo che avvenga in una versione acceleratissima, un fast forward 32X. 
O quantomeno in una sintesi, come nell’inizio delle puntate di 24. Un montaggio intelligente, non necessariamente in ordine cronologico adeguato ma che riassuma, così, velocemente, tutti i fatti accaduti, prima di andare dall’altra parte, nella nuova serie.
Ma se sarà così, rivedrò (rivedremo) anche tutte le serie tv? Di nuovo? Tutto Breaking Bad, Games Of Thrones, True Detective, The Killing, House Of Cards, Gomorra, Romanzo Criminale, Dio santissimo dei cieli, dovrò (dovremo) rivedere da capo tutte le stagioni di Walking Dead? 
E in quel momento, come potrò pormi di fronte a questa nuova edizione? Potrò comunque esprimere un’opinione, avere una mia posizione precisa, parteggiando per gli zombie, affinché divorino i personaggi più ciarlieri?
Spero di sì. Una visione passiva, una seconda visione passiva, non la reggerei.
Aiuto. 
Rivedrò (rivedremo) i discorsi di Berlusconi nelle campagne elettorali? I suoi proclami dopo le vittorie? E ancora, scendendo nel passato, rivedrò Fanfani e Rumor e Donat Cattin e Tassan Din, sullo schermo in bianco e nero della TV della mia famiglia? Rivedrò i telegiornali antichi, il monoscopio del fine trasmissioni, il suono prolungato della fine dei programmi. Rivedrò lo schermo completamente azzurro di Telecentro, quando alle una di notte cessava di trasmettere ma, segretamente (e io, io sì, lo conoscevo quel segreto) nello stesso momento un tecnico magnanimo stava armeggiando con una videocassetta da mandare in onda a sorpresa, alle due, alle tre, non era dato saperlo e su quella cassetta forse non c’era titolo, per non avere guai, ma se ci fosse stato, probabilmente sarebbe stato Lolita Masturbation?
Rivedrò le mie gambe di adolescente in atto masturbatorio? Rivedrò i ritagli di giornalini porno trovati nel campo, quei fiori colorati che con gli amici sapevamo riconoscere a distanze impossibili per l’occhio umano? 
Rivedrò, in punto di morte, le carezze ai cani di mio padre? Sarò di nuovo cucciolo tra i cuccioli, messo in posa, accanto ai cani da caccia per far sì che lui potesse scattare foto ai suoi amati spinoni senza che mia madre lo rimproverasse perché “fotografava solo i cani e mai i figlioli”?
Vorrei sapere alcune cose dai morti. Vorrei saperne molte in verità, ma mi accontenterei per il momento, di sapere questa: davvero si rivede tutta la vita scorrere davanti ai nostri occhi, in punto di morte? 
Perché se davvero fosse così, metterei maggiore attenzione nella scelta di ogni futura attività.
Cari morti, adesso, ad esempio, sto giocando a Fifa 14, in modalità carriera. Per voi morti antichi, devo spiegare che in modalità carriera si utilizza un solo calciatore della squadra, gli altri agiscono in automatico grazie a delle routine molto sofisticate di intelligenza artificiale. per i morti molto vecchi, dedicherò in seguito, una parte, alla definizione di “intelligenza artificiale”. 
Il mio calciatore, in modalità carriera, si chiama Harry Cani, è di colore, pesa settantotto chili ed è alto un metro e ottantacinque. Gioca nel Livorno, in serie B. In una delle ultime partite si è infortunato e così non ha potuto giocare per ben tre mesi di gioco. In Fifa 14 non esiste un modo per saltare di netto questi tre mesi, si deve comunque seguire l’andamento del campionato senza poter giocare, solo premendo il tasto A sul controller dell’xbox per andare avanti nella stagione. Non è una cosa divertente e , se fosse possibile, non solo avrei fatto ameno di passare tutto quel tempo a vedere la mia squadra del cuore subire una sconfitta dopo l’altra a causa dell’assenza del Bomber Cani, ma preferirei non dover rifare tutta la trafila, in punto di morte.

Ora mi chiedo, cari morti, esiste per caso un modo, un moto di coscienza, in quell’ultimo istante, una goccia residua di volontà per scegliere cosa rivedere e cosa no? Una sorta di sistema On Demand pre morte. Esiste? Se esistesse sarebbe una cosa buona. 
Per esempio non vorrei rivedere tutte le volte che mi sono comportato male e ho dovuto vergognarmi e non vorrei rivivere le discussioni su Facebook o i reload delle pagine web quando la Telecom mi faceva i dispetti, ma vorrei rivedere la schiena della mia fidanzata la prima volta che l’ho vista passare in quel locale all’aperto. 

Pensate che sia possibile? 
Devo procurarmi un tavolino con tre gambe per avere la risposta? 
E perché con tre gambe? 
Siete strani voi morti. Lo sapete vero?


maggio 30, 2014

Una volta sono stato buono

Una volta sono stato buono. Sicuramente sono stato buono, una volta, almeno una volta.
Non ricordo l’anno con precisione, ma era tanto tempo fa, forse il 92, o il 93. Non ricordo con precisione ma il periodo più o meno, credo sia quello.
Era notte. Una notte d’estate. Visto che ho smesso di assumere stupefacenti nel 1999 posso dire che le probabilità che avessi fumato una decina di cannoni quel giorno siano alte. Quindi la situazione è questa: sono a casa con la mia ex moglie e con un amico, Michele. Questo amico adesso abita in Spagna e non ci vediamo da un sacco di tempo, ma sono sicuro che se gli chiedessi di testimoniare la veridicità di questo racconto potrebbe farlo, senza problemi.
Quindi è estate, è notte e siamo al tavolino di cucina, a fumare le canne o a gustarci gli effetti di quelle fumate in precedenza. Non esiste Facebook, non esiste Twitter, non c’è Sky, quindi, probabilmente stiamo parlando.
Visto che, quasi sicuramente mi sono gonfiato la testa di cannoni non avrò voglia di altro che fare lo scemo e non pensare a niente. Forse suono canzoni idiote con la chitarra folk.
La casa in cui siamo è una vecchia abitazione di campagna, costruita sui resti di una antica chiesa medioevale. Una casa molto antica, so che addirittura fu stazione di posta in epoca romana. 
Ci sono i fantasmi, mi hanno detto, e una volta li ho sentiti pure. Ma di questo racconterò in un’altra occasione.
La casa sta su una curva larga, una curva che se fosse rialzata sarebbe una parabolica perfetta, ma non lo è. Quindi, la notte, è solo una curva nel buio della campagna al termine di un rettilineo di tre chilometri. 
Questi chilometri dritti sono una specie di nassa per gli imbecilli del sabato sera, accade quasi ogni fine settimana che qualche imbecille a bordo di un’ auto troppo veloce e leggera arrivi alla curva dove sorge casa mia e mi si schianti, con un gran botto, nel muro di cinta. 
Prima che imparassi a memoria i ritmi di questo flusso migratorio di imbecilli avevo in uso di parcheggiare la macchina (e la mia macchina era sempre una Renault 4) fuori dal cancello, accanto al muro di cinta. 
Così capitava che l’imbecille del sabato sera si schiantasse contro la mia Renault 4, facendola a brandelli. Di solito le mie Renault 4 avevano un’età tra i dieci e i quindici anni e il valore di mercato del rottame si aggirava intorno alle trecentomila lire.
Tre Renault 4 vennero accartocciate in questo modo dagli Ayrton Senna del sabato sera, prima che io capissi che avrei dovuto costruire un cancello e parcheggiare la macchina oltre il muro di cinta e non all’esterno.
Se vi state chiedendo perché parlo di “imbecille” raccontando di povere vittime che si schiantano contro un muro di cemento, di notte, a 150 chilometri l’ora, dovete sapere che nessuno si è mai fatto male. Proprio niente. Una ginocchiata e tanta paura sono stati gli effetti più gravi.
Il mio muro era un muro benedetto. Ora lo so.
Ricordo l’ultimo ragazzo che mi si schiantò nel muro di cinta. Un urto fortissimo provocato dall’impatto di una Ford Fiesta. uscii di casa di corsa, trovai il pilota nell’auto accartocciata, lo aiutai a uscire e quando ebbi constatato che era sano e salvo, guardando lo stato in cui aveva ridotto la macchina gli chiesi, sinceramente curioso: ”scusa ma a quanto andavi?” e la sua risposta, naturalissima, che spense in me ogni residuo moto di pietà, fu, riporto letterale, in gergo pisano: “dè, a tutta.”
A tutta.
Potrei fare una lista degli incidenti se questo racconto parlasse di questo, ma parla della notte in cui fui buono. Perché almeno una volta lo fui.
Quella notte famosa stavo in casa con un amico e la mia ex moglie e sentimmo comunque uno schianto. Ma piccolo. Un rumore indefinito che venne sottolineato dall’abbaiare dei miei cani. Quell’abbaiare dei cani, se lo avessi messo nel traduttore di google avrebbe riportato: ”vi è qualcuno, un bipede, fuori dal cancello”.
Ma questa notte famosa ebbe luogo prima che Google e Facebook conquistassero i nostri cuori e le nostre anime ed ebbe luogo quando ancora non avevo capito che sarebbe stato meglio parcheggiare la Renault 4 all’interno del cortile e non all’esterno a far da guardrail alle Ford Fiesta che arrivavano “a tutta”. 
Quindi uscii di casa, afferrai pure un bastone, perché stare in campagna, isolati, è figo, ma fa anche paura a volte e se hai le braccia come due Baguette Tradition, come le mie, un bastone ti viene naturale.
Quindi esco con il bastone e una torcia. La torcia è una Maglite di quelle kingsize, nera. Quelle che usano i poliziotti americani. 
Illumino il cancello. Nessuno. State zitti cani. I cani abbaiano ancora. Apro il cancello. Illumino a destra, il culo della Renault 4, gli antichi fari posteriori mi rimandano il rosso della plastica. Mi sposto, si sposta il fascio di luce, sulla strada, una bicicletta stesa. Possibile che qualcuno sia arrivato in bicicletta “a tutta” e si sia schiantato contro la mia macchina? La luce scivola ancora sul terreno, qualcosa luccica, sassolini levigati, i fotoni della torcia incontrano la ruota della macchina, la fiancata, la portiera,  si arrampicano e scoprono due gambe con due piedi che spuntano dal finestrino del guidatore.
I sassolini levigati sono frammenti di vetro. I piedi si muovono piano, su e giù, come se il proprietario di quei piedi volesse camminare in orizzontale, su un piano immaginario perpendicolare al terreno.
Non so quanti di voi si sono mai trovati ad avere a che fare con uno sconosciuto piantato nel finestrino della propria macchina, di notte, in aperta campagna, casa isolata, ma è una cosa che fa un po’ paura. Intanto perché non si sa mai, in generale. Poi non si sa se quelle gambe sono le uniche, magari ce ne sono altre tre paia con sopra dei gropponi e dei braccioni attaccati. Quindi, quella notte, la notte in cui fui buono, per prima cosa feci il cattivo. La paura mi fece fare il cattivo e mi procurò in prestito il vocione impostato di mio padre per urlare “cosa fai?!”
Le gambe, si mossero di nuovo allora, probabilmente in qualche alfabeto di polpacci Morse da me non conosciuto. Comunque, le gambe non risposero. Per fortuna, non ne spuntarono altre dall’ombra della notte. 
Mi avvicinai ancora. 
C’era una persona attaccata a quelle gambe, aveva la testa sul sedile del passeggero e le braccia piegate in modo che lo rendevano inoffensivo. Insomma, non ho grandissima esperienza di combattimento uomo a uomo ma non credo che iniziare un match con la metà corpo infilato nel finestrino di una macchina sia una condizione vantaggiosa.
E poi, a quel punto, mi veniva da ridere. 
Non era una minaccia.

C’erano indizi che prima non avevo notato e li notai solo mentre le gambe si sfilavano e, aiutate da me e il mio amico, si ricomponevano sull’asfalto, dipanando un uomo.
Una maglietta bianca con taschino sul petto gli copriva la parte superiore, il tizio aveva battuto la testa e il sangue uscito dalla ferita quella maglietta aveva rovinato. Il taschino era gonfio.
Mandai uno sguardo all’interno dell’auto. C’erano frammenti del finestrino sul sedile e tra i pedali. C’era lo sportellino del bauletto aperto. Le sigarette che lo abitavano, un pacchetto di Marlboro, non c’erano più e facevano ora timida mostra di se nella semi trasparenza della maglietta dell’uomo, nel taschino.
Interrogatorio, bastone in mano: che cazzo fai? Perché eri piantato come un pesce nel mio finestrino? Sei ferito? Che cazzo hai fatto?
Sono caduto, la risposta. Guidavo la bicicletta e sono caduto e cadendo sono finito con la testa contro il finestrino. Sono ferito, guarda. 
Guardo. Perde sangue. 
Sono caduto.
E cadendo, la mano ti è finita sulla serratura del bauletto, l’ha aperto e ha fatto spuntare fuori le Marlboro che ti sono finite nella tasca della maglia, gli chiedo?
Si fa aggressivo. Che cazzo vuoi? Mi dice. 
Faccio un passo indietro e mi stabilizzo. Mazza di legno in mano. Ora lo guardo. L’uomo ha la mia età. Un forte accento napoletano. E’ male in arnese, la maglia non è solo sporca di sangue e i pantaloni sono laceri. La bicicletta, ancora svenuta sulla strada è monca e sbilenca, chiaramente rubata.
Intorno i grilli.
E’ un ladro. 
Realizzo: ho catturato un ladro. 
Un ladro evidentemente frastornato, forse ubriaco, forse ha preso degli psicofarmaci, conosco l’effetto, furono una moda nel mio gruppo di amici, in passato e il ladro è instabile, sulle gambe, in modo familiare.
Ho catturato un ladro. Non mi era mai successo.
Cosa si fa quando si cattura un ladro? Ci sono differenti opzioni, almeno nel caso di ladri catturati in una strada di notte, zona isolata, in provincia.
Basta frequentare il bar del paese perché ci sia qualche personaggio locale che illustri le opzioni possibili. Certo, tra le possibilità sentireste pronunciare la parola Polizia ma più frequentemente le tre parole “botta in testa” e “buca nel campo”. Al bar del paese sono fatti così.
Il sonno della ragione genera mostri ma lo stesso effetto può esser generato dall’avere palesemente ragione. 
Sei in casa, tranquillo, di notte e un ladro ti spacca il finestrino della macchina e ti ruba quello che c’è dentro (poco, in effetti) ma forse, se i cani non avessero abbaiato si sarebbe preso la macchina con tutte le ruote.
Quindi io ho ragione in quel momento, indiscutibilmente ragione. Ho una mazza di legno in mano e se gli allungassi una legnata, non dico da farlo svenire fare una buca e via dicendo secondo gli insegnamenti del bar, ma una legnata media. O un cazzotto. Se lo facessi, avrei quasi ragione.
Ecco, in questo preciso momento potrei dare un cazzotto ad un altro essere umano e, sostanzialmente essere comunque dalla parte della ragione. 
Quella stessa ragione potrebbe farsi pugno chiuso e colpo e nessuno potrebbe criticarmi più di tanto. Sì, forse qualcuno lo farebbe, qualcuno che non ha mai vissuto una situazione di ipotetico pericolo, ma gli altri, quelli del bar, che ne sanno, approverebbero, tutti. 
Approverebbero pure i carabinieri, se li chiamassi, dopo. Ne sono sicuro.
Ma quella è la notte in cui fui buono. Forse l’unica volta in vita mia in cui fui veramente e completamente buono, spingendomi fino a quel confine della bontà che molti identificano con la stupidità.
Quindi non porto un cazzotto e la mia attenzione si concentra sul sangue sulla maglia. Sulla ferita alla testa. 
Prendo l’uomo per un braccio. il mio amico Michele sembra deluso, secondo me avrebbe preferito la via del cazzotto. Ma io lo conduco fino al cancello, che quella ferita alla testa va controllata alla luce del bagno.
Ecco, mentre ci muoviamo l’uomo catturato gioca le carte che cambieranno la partita in modo da mettere alla prova il risultato finale. Perché il catturato non si comporta bene. Non riconosce la propria colpa, no. Non si sottomette. Mi insulta. Io lo porto a medicare e lui mi insulta.

La luce del neon della cucina gli definisce meglio le forme e disegna anche il viso stupito della mia ex moglie. Ho catturato un ladro, le dico. E’ ferito.
Così andiamo nel bagno e gli dico di farmi vedere la ferita e chiedo alla donna di casa se mi porta dell’acqua ossigenata.
Laviamo il sangue e la ferita. 
Mi insulta. 
Da dove vieni? Vaffanculo. 
E che stavi facendo qui? 
Che cazzo vuoi? Risponde.
Ok, vediamo quanto male ti sei fatto.
Poco.
Via la maglietta. Donna di casa portami una maglietta pulita. Una maglietta bianca, visto che indossava una maglietta bianca, non stravolgiamo i suoi gusti. Una maglietta bianca. Ce ne sono.
Sul tavolino di cucina, sotto la lampada al neon, c’è un Walkman. 
Non dimentichiamo che questa è una storia del passato, in quel passato esistevano i Walkman e non esistevano gli Smartphone.
L’uomo adesso è seduto su una sedia. Si guarda in giro. Ha gli occhi del malavitoso, le parole del malavitoso e si comporta come se fosse lui ad avere catturato tutti noi. Minaccia. Mi fa pena.
Chiedo di nuovo. 
Riesco a sapere che viene da Napoli. 
Gli chiedo cosa ci fa qui. Non risponde. Lo faccio da solo: Non ci fa un cazzo qui. Va in giro e ruba ed è talmente scemo che finisce infilato come un pesce nei finestrini delle Renault 4.
Non è un gran che come criminale, va detto e glielo dico. Lui fa il gesto della pistola con le dita e quella pistola fatta di indice e pollice cane mi punta addosso. Poi fa lo sparo con la bocca.
Mi hai mancato. Gli dico.
Lui aggiunge che uno come me a Napoli durerebbe dieci minuti. Mi spara di nuovo.
Ok.
Metti la maglia, falla finita.
Lo fa: infila la maglia. 
Vuoi un po’ d’acqua? Beve.
Sei catturato, fratello criminale. Sei ferito, anche se lievemente, e la tua pistola spara saliva dalle labbra. 
Sei prigioniero. Il tuo destino minimo è nelle mie mani. Sento il potere che questa situazione mi da. Potrei chiamare i carabinieri. Forse dovrei. Oppure potrei reagire ai toni strafottenti che l’uomo non sembra voler abbandonare e dargli una botta in testa e fare una buca. 
Perché dovrei stare qui a farmi trattare come un coglione da questo pezzo di merda?
Michele, il mio amico, guarda me e lui con un certo fastidio. Credo che se facessimo una votazione, in questo momento, un esempio ante litteram di democrazia dal basso, lui voterebbe per la buca.
Cosa guardi? Chiedo al ladro. Non perché mi voglia fare i cazzi della sua attenzione, ma ha lo sguardo fisso sul tavolino. 
Un gesto del mento. 
Guardi questo? Ora ho il Walkman in mano. 
Eh.
Lo guardo anch’io. C’è una cassetta dei Pink Floyd all’interno.
Pink Floyd, gli dico. Ti piacciono i Pink Floyd?
Annuisce.
Adesso ha le cuffie del Walkman alle orecchie la mia preda. Siede su una seggiola di legno alla luce al neon della mia cucina. Si sono fatte le tre di notte.
Non mi sente più. 
E non sente la mia ex moglie ed il mio amico. Così parliamo. Che ne facciamo di questo?
Ha spaccato il finestrino? Mi chiede la donna. Sì. Rispondo. 
E fa pure lo stronzo. Aggiunge l’amico. 
Lo so.
Chiamiamo i carabinieri? E’ la domanda.
Gli tolgo le cuffie dalle orecchie. Gli domando dove abita. Fa lo stronzo. Poi ripete Napoli. 
Perché non torni a casa? Gli dico. 
Non ha i soldi per il treno.
In quale quartiere abiti, a Napoli, chiedo, anche se in quel momento della mia vita a Napoli non ci ho mai messo piede e non ne so un cazzo di niente.

Scorrono i campi che aspettano di riempirsi di granturco, sotto la luna.
Sono le quattro. 
La Renault 4 viaggia in senso contrario sul rettilineo usato dai giovanotti della zona per andare “a tutta”. Io guido. Il mio amico Michele sta sul sedile del passeggero e appare contrariato: Tu sei di fuori, mi dice.
Sul sedile posteriore della Renault 4 c’è un ladro con una maglietta bianca nuova nuova, in mano ha un Walkman di bassa qualità, sulla testa un paio di cuffie di bassa qualità e nelle orecchie una musica di ottima qualità. E lui, lo vedo dallo specchietto, muove la testa a ritmo, piano. 
Quando incrocia i miei occhi, nel retrovisore, rimette la faccia sprezzante e mi spara di nuovo.

La stazione è deserta. 
Questa è una storia avvenuta tanti anni fa e la stazione è la stazione di una tranquilla cittadina di provincia e le bande di tunisini che spacciano e si prendono a bottigliate a tutte le ore non sono ancora arrivate.
C’è un treno per Napoli. Non ricordo quanto costa il biglietto ma so che lo pago.
Avrai fame durante il viaggio. Lo vuoi un panino? Annuisce. 
E adesso siamo al binario. Lui sta per salire sul treno e quando gli allungo cinquantamila lire per non tornare senza un cazzo fino a casa il suo atteggiamento da guappo indomito sembra, anche se per un momento, vacillare. Mi guarda in modo diverso, per una frazione di secondo, ma lo fa. E’ stupito. Qualcosa si è incrinato, in questa notte, nel suo metodo di ragionamento.
Sono sicuro che fosse preparato ad essere catturato. Sei preparato a questo quando sei un ladro. Credo che fosse pure pronto a prendersi un po’ di cazzotti, una bastonata. Chissà quante volte le ha prese. Ha la faccia da pugile di strada.
Ma stanotte le cose sono andate diversamente.
E’ stato curato, rivestito, oggetto di doni. Ha la musica nelle orecchie. Cinquantamila lire, un regalo pure questo, nelle tasche.
E’ così che sale sul treno per Napoli.
Fai a modino, sono le mie ultime parole. 
In risposta ricevo l’ennesimo dito pistola puntato al viso. Ma non apre il fuoco questa volta. Fa “clic”, con la bocca. 
E la bocca, forse perché non l’ha controllata abbastanza, fa una piega di sorriso.
Michele ed io rientriamo alla base.  
Non parliamo.
Mi sento da Dio. Anzi, mi sento da figlio di Dio. 
Come diceva quello?

La notte si schiarisce intorno e Michele borbotta un “mah..” che contiene un sacco di cose.
Io nella mia fantasia sono a Secondigliano, dieci anni dopo. Sono stato catturato da un boss della camorra (non so perché, la mia immaginazione non arriva a tanto) sono stato condannato a morte. Arriva il killer che dovrà eseguire. Ha una maglietta bianca. “Fermi, questo lo conosco. E’ nu bravo guaglione” dice.









maggio 24, 2014

Mass Effect 3 o cosa votare alle europee

Da quel che ho capito, perché la situazione è complessa, i Razziatori sono una razza aliena che ha come unico scopo e principio di sollazzo la distruzione di ogni forma di vita nella galassia.
La galassia della quale stiamo parlando, amici, è proprio la nostra. 
Non c’è di che dormire tranquilli. 
Per la precisione, va ricordato che il Comandante Shepard aveva già avvisato il Consiglio della Cittadella che i Razziatori sarebbero potuti arrivare nella nostra galassia (sì, proprio la nostra quella che ospita il nostro sole e il suo tenerissimo e minuscolo sistema solare) ma nessuno lo aveva ascoltato. O almeno, nessuno lo aveva ascoltato a dovere.
Adesso quindi che accade?
I Razziatori, improvvisi, velocissimi e letali sono arrivati addirittura sulla Terra e il comandante Shepard, a bordo della nave spaziale Normandy parte per una missione difficilissima: riunire le diverse specie aliene della galassia per combattere, tutti insieme, la minaccia dei Razziatori. 

Mentre lo fa i Razziatori infilano i loro artigli meccanici nella Terra e la fanno a brandelli.

Sto giocando a Mass Effect 3, nella versione per Xbox. 
In passato ho giocato a Mass Effect 1 e Mass Effect 2 e li ho finiti entrambi. 
Non è una cosa comune finire un gioco, spesso ci si rompe i coglioni a metà o esce qualche novità che ti distrae, ma i primi due Mass Effect li ho terminati entrambi, e non senza una certa soddisfazione.
Adesso sono a metà della storia del terzo capitolo.
Domenica ci sono le elezioni europee ma è pure domenica e, in teoria, uno potrebbe non lavorare e fare il cazzo che gli pare tutto il giorno.
Nel mio caso questa condizione coinciderebbe con il viaggiare a bordo della Normandy e combattere i Razziatori.
Però ci sono le elezioni europee ed è successa una cosa che mi ha gelato il sangue. 
Mi hanno detto che, in quanto personaggino pubblico, potrei, con una mia dichiarazione di voto, influenzare un certo numero di indecisi. 
Non so quanto sia grande questo numero ma se fosse, ad esempio, uguale a 3, sarei già preoccupato. Certo, una parte di me, essendo sempre stato una nullità, ne gode segretamente e rimugina strategie per aumentare la popolarità e far crescere quel numero 3. L’altra parte invece, immagina che così facendo un giorno potrei trasformarsi in Scanzi e raggela.
Molti mi hanno chiesto per chi voterò domenica. Mi è stato anche chiesto di supportare uno schieramento. Di “dare una mano” o offrire visibilità. Evidentemente quei 3 che potrei influenzare sono ritenuti un bottino prezioso.
Domenica ci sono le elezioni e nel frattempo c’è la minaccia dei Razziatori. 
Giocare all’Xbox in età avanzata è molto bello, perché puoi farlo sul divano. E’ come guardare la televisione, una attività da anziani, ma con una maggiore partecipazione. 
Ieri, per esempio, ho scelto di non perpetrare la genofagia ai danni dei Krogan, e i Salarians, che quella genofagia avevano progettato e messo in atto, non l’hanno presa bene.
Certo, hanno le loro ragioni, i Krogan vivono secondo un codice guerriero. Concepiscono solo la forza come strumento per la risoluzione dei conflitti e hanno aspirazioni di dominio e di vendetta sull’intera galassia. Per questo i Salarian applicarono la genofagia, un terribile sistema che portò le femmine Krogan alla sterilità, impedendo, di conseguenza, che la razza Krogan potesse continuare a procreare ed espandersi.

Ieri, come ho detto, nei panni del Comandante Shepard ho dovuto scegliere se curare o meno la genofagia. Ho scelto di curarla, perché penso che tutti abbiano diritto alla propria libertà. L’ho fatto nella speranza che questo gesto, comunque, potesse scuotere l’animo guerriero dei capi Krogan e li portasse a vedere le altre razze (ad esempio noi umani) con un occhio diverso. Un gesto di compassione che spero possa dare, un giorno, buoni frutti.

I Salarians, come ho detto, non l’hanno presa bene. Pensano che, anche se dettata dalla necessità di avere i Krogan al nostro fianco, nella battaglia contro i Razziatori, aver curato la genofagia possa rivelarsi, a lungo termine, un gesto con conseguenze disastrose.
Se anche riuscissimo a sconfiggere i Razziatori, cosa faranno i Krogan? Riprenderanno le loro mire espansionistiche? Dirigeranno le loro flotte e i loro guerrieri sanguinari e inarrestabili contro qualche sistema dell’alleanza?
Né io, nei panni del comandante Shepard, né i governanti Salarians abbiamo una risposta a questa domanda. Ma ci sono i Razziatori. Questo è il problema del momento, e i Razziatori non si fermeranno. Con i razziatori non si tratta. Le altre razze sono, per loro, insetti da schiacciare.
E’ una guerra, quella che sta sconvolgendo la galassia, dalla quale potremmo uscire sconfitti. 
E sconfitti, in questo caso significherebbe cancellati dalla storia.

Questo non c’entra molto, ma penso che quello che accadde miliardi di anni fa, con il big bang, accade ogni volta che accendo l’Xbox. L’energia improvvisa porta la vita, genera immagini e storie, dà vita a personaggi che agiscono, parlano, si muovono. Quando smetto di giocare ho sempre un momento di disagio prima di spegnere l’interruttore che tutti quei colori e quella vita riporterà nell’oblio della non esistenza e a volte, addirittura, non lo faccio. A volte spengo solo la tv. Lo schermo diventa nero ma il Comandante Shepard, con la sua nave, il suo equipaggio, restano in vita, anche se immobili, sospesi, in pausa, non scompaiono davvero, solo alla vista, celati dietro il velo opaco dello schermo tv. La luce verde dell’Xbox nel mobile, poco sotto, mi ricorda che sono ancora in vita.
Spero che Dio si ponga problemi simili, ogni volta che il suo pollicione divino si avvicina all’interruttorone divino che regola la nostra esistenza.
Non premere quel pulsantone Dio, noi siamo qui, viviamo. Anche se per te, oh dio, la nostra vita appare come insignificante giochino pomeridiano, per noi è la vita vera, la nostra esistenza. Non ci spegnere Dio, ti prego.

Domani ci sono le elezioni europee e in molti mi hanno chiesto per quale schieramento andrò a votare. Credo che ci siano, in questo momento, 3 persone che stanno seriamente aspettando questa mia dichiarazione.
So solo cosa non voterò: Non voterò M5s perché mi fanno paura. Perché dividono il mondo in due. Lo dividono in “noi” e “loro” e questo per me è inaccettabile. Non lo voterò perché non credo alla purezza e perché non riesco a ragionare per semplificazioni, facendo del fare di tutta l’erba un fascio un sistema di pensiero. Ci sono altri seimila motivi ma lasciamoli stare.
Credo di essere di destra.
Mia sorella, ogni volta che le dico che sono di destra, perché mi sembra naturale a quest’età e con il lavoro da privilegiato che faccio, essere di destra, inizia sempre a farmi un sacco di domande. Domande sull’economia, sui diritti civili, sul rispetto delle minoranze, sulla salvaguardia delle fasce più deboli della popolazione, sulla sanità, sulla scuola, e quando ho risposto a tutto mi dice: “lo vedi che sei di sinistra!”. Io allora le rispondo che non sono di sinistra ma appartengo ad una destra illuminata che in Italia non ha rappresentanza alcuna e lei allora chiude ridendo e dicendo “ma vai in culo, scemo!”. Mia sorella, sicuramente non aspetta di sapere che cosa voterò perché sa molte più cose di me e quindi credo, piuttosto, che annoveri me tra le 3 persone che con la propria decisione di voto potrebbe influenzare. Probabilmente è così.
Poi cosa abbiamo?
Berlusconi e i suoi. Per questo bastano tre lettere: LOL.
Tsipras. 
A parte che non riuscirei a votare una lista che preclude la pronuncia del nome a chi ha problemi di zeppa o lisca, discriminando quindi una grossa fetta di popolazione (immaginate Jovanotti che dice “Tsipras”?) ci sono altri aspetti che non mi piacciono. la questione dei capi lista che, se votati, lasceranno il posto ai secondi, facendosi da parte dopo aver avuto la funzione di richiamo per gli elettori non mi sembra una bella cosa. e poi io sono di destra, no, forse sono di centro. Ecco, credo di essere di centro, un po’ come il Comandante Shepard, credo che anche lui sia di centro, in questo suo viaggiare per la galassia cercando di costruire un’alleanza con il maggior numero di razze possibile.
Mi sa che sono di centro. Sarebbe naturale. Si nasce incendiari e si muore pompieri. Credo che le spaccature nette che hanno accompagnato gli ultimi venti anni della storia politica del nostro paese abbiano generato danni gravissimi. Penso che si dovrebbe cercare una pacificazione, diventare una nazione che non sia sempre in guerra permanente e bla bla bla. Sono di centro. Cazzo. E’ orribile.

Quindi, essendo di centro dovrei andare, come mi ha suggerito questa mattina un caro amico, prendendomi per il culo, dovrei andare a votare Casini. UDC. 
No, va bene, non scherziamo. Se deve essere così, che vengano pure i Razziatori, che dio apponga il suo pollicione a quel gigantesco Xbox che è il nostro universo e mi faccia sparire con tutto quello che conosco.
Mi resta il PD. Piango. Perché piango? Non lo so, ma piango piano piano. 
Mi chiedo allora: cosa farebbe Shepard?
Potrebbe fregarsene, Shepard? Potrebbe girare l’astronave e fottersene della galassia, scivolare nell’iperspazio di cancello interstellare in cancello interstellare, lontano. Lontano dai razziatori, dalla Terra, dai dominii dei Krogan, dai sistemi governati dai Salarian e dai Turian. Via, lontano, fin dove le stelle si spengono e parcheggiare là, nel buio, la propria nave ed aspettare, quieto.
Aspettare cosa?
Parlando con altri amici e giocando al cinismo ci siamo detti: “andiamo a votare M5s acceleriamo la fine e poi, da privilegiati quali siamo, sediamoci sulla collina a guardare”.
Oppure no, andiamo a votare Silvio. In un imprevedibile gesto dadaista.
Io ho proposto di salvare con nome la situazione del paese, prima di fare una delle due cose. 
Salviamo con nome, poi li votiamo, li facciamo governare e poi, se dopo vent'anni c’è rimasto solo un cumulo di macerie, riprendiamo il salvataggio vecchio e ricominciamo in un’altra direzione.
Ma non esiste nessun comando “salva con nome” nella realtà. 
Quindi cosa voterò, cari 3 amici che siete arrivati fin qui sperando in una indicazione congrua?
Forse resterò a giocare all’Xbox, perché sono un privilegiato con un lavoro e che può permettersi di sbattersene le palle degli altri.
Certo mi piacerebbe vedere il mio paese in uno stato di pace. Vorrei sentire discutere delle soluzioni da prendere in un momento di crisi tanto terribile. Mi piacerebbe sentir parlare di immigrazione in termini realistici, ed anche di benessere in termini realistici. Mi piacerebbe sentire che quello che sta accadendo era inevitabile, che non si può essere privilegiati per sempre, con più della metà del mondo che se la passa di merda e tu che giochi a fare l’occidentale con milioni di privilegi. C’era un conto da pagare, forse dovremmo capire come pagarlo senza farci troppo male. 

Nei sogni che faccio quando sono parcheggiato nell’astronave, nei panni del Comandante Shepard, ai confini dell’universo conosciuto, a volte penso a questo. Vorrei un governo che non spinga a generare conflitti ma che punti a stemperarli, che unisca e non divida, che non offra un futuro di tribunali del popolo ma di Giustizia uguale per tutti, con delle regole democratiche, senza una leadership inamovibile ed autoproclamata, che rispetti le regole costituzionali e allo stesso tempo pensi a come rendere più moderna ed attuale proprio quella costituzione, perché non sia solo un altro dei tanti feticci da adorare, stando fuori dalla contemporaneità.
Ecco. Questo penso, a volte. Almeno quando non ho il grilletto sul fucile Laser e sono al sicuro nella mia cabina di comandante della Normandy, nello spazio interstellare.
Così, adesso, a quei 3 amici che stanno aspettando il mio consiglio chiedo: 
Avete qualche consiglio da darmi?






aprile 26, 2014

25 Aprile, 31 Agosto

Questo è il testo che ho letto al MixArt di Pisa per la ricorrenza del 25 aprile.
Per chi non è potuto venire, lo metto qua. Dal vivo ho cambiato delle cose al volo, ma in sostanza, è questo qua.


E’ il 25 aprile. 
La guerra finisce. 
Mio padre mi ha raccontato tante cose della guerra ma di questo giorno, del 25 aprile, non mi ha parlato mai. 
Se lo ha fatto, perché forse, chissà, forse lo ha fatto, io non ascoltavo.

Quando mio padre mi parlava della guerra ero un ragazzo e i ragazzi, di solito, non hanno interesse per il passato. 
Del resto, come dargli torto, hanno il futuro con cui giocare a palla. Perché dovrebbero interessarsi del passato. E’ una roba da vecchi. La memoria.

Quindi mio padre forse mi ha raccontato cosa fece il 25 aprile. Forse, non lo so. Se lo ha fatto io non lo ricordo.

Mia madre adesso ha 92 anni. Si è rotta un femore e passa quasi tutto il giorno stesa sul letto. “Quasi” tutto il giorno, perché poi Tatiana, la badante che se ne prende cura come dovrei fare io, la fa alzare e la porta ogni giorno a fare un giro dell’isolato. 
Girano per le villette di Portallucca dove tanto ho giocato da ragazzino, dove Vito un giorno tirò una pallonata che andò a prendersi pieni i fili dell’alta tensione. 
Quei fili, in seguito alla pallonata, oscillarono, si toccarono esplosero in un San Ranieri di scintille e caddero giù, agitandosi come serpenti indispettiti, sputando scosse che potevano mandarci tutti all’altro mondo. 

Avevo dodici anni allora, giocavo a palla con il futuro. E dodici ne aveva Vito che era proprio in mezzo ai due cavi dell’alta tensione mentre ballavano, sospinti in alto e poi di nuovo a terra dagli sbalzi della corrente alternata. 
Memoria. 
Ricordo che Vito stava fermo, in mezzo ai fili, immobilizzato e salvato dalla paura. 
Noi ragazzi, (amici, si dice) eravamo a distanza di sicurezza e ridevamo. 
Nel mio ricordo Vito ha il pallone in mano. Fermo immobile con il pallone in mano in mezzo a quei serpenti elettrici, ma è possibile che sia un ricordo fasullo.
Memoria.

Mio padre era un cacciatore. Aveva alcuni fucili. Spesso andavo a maneggiare quei fucili. I fucili sono armi. C’erano anche le cartucce in giro per casa, senza protezione, di facile accesso,  ma per qualche motivo che non so, per quanto fossi un adolescente incosciente e stupido, non li ho mai caricati. 
Una volta sì, ne ho caricato uno ma non ero più un adolescente allora, ero un giovane uomo molto stupido. 
Lo caricai e lo puntai ad una persona. Questo fanno le armi, in mano agli stupidi.
Però non sparai, altrimenti ora sarei un uomo appena uscito di galera, magari un uomo con qualcosa di interessante da raccontare.
Fucili. Ricordi.
In casa dei miei genitori c’era questa fotografia che ritraeva un serpente morto. Il serpente era inquadrato dall’alto, la testa gli era stata spappolata da un colpo di fucile. 
Ai lati dell’inquadratura si vedevano un paio di sandali con gli occhi. Piedi di bambino. 
Ricordavo bene il momento in cui era stata scattata quella fotografia. Eravamo in montagna, era apparsa una vipera e mio padre le aveva fatto saltare la testa con una fucilata. Aveva sparato a pochi centimetri dai miei piedini con i sandali con gli occhi, salvandomi di fatto, la vita.
Solo di recente ho scoperto che quei piedi, quei sandali, nella fotografia, non sono i miei. 
Sono quelli di mia sorella Cristina. Non ero ancora nato quando quella foto fu scattata. Il mio era un ricordo fasullo, costruito negli anni d’infanzia, guardando quell’immagine, nel cassetto delle fotografie.
Forse volevo solo che mio padre fosse un eroe indiscusso.

Mio padre aveva molte cose da raccontare. 
Anzi, non molte. Una cosa che mi incuriosisce sempre è l’operazione di riduzione dei ricordi che fanno i vecchi. Hanno vissuto ottanta, novantanni, ma quando poi raccontano, automaticamente, credo, riducono i ricordi ad un copione ristretto. 
Mio padre, alla fine, se ci penso, raccontava sempre gli stessi episodi. 
Mia madre, che da quando mio padre non c’è più non ha mai smesso di piangerlo, di lui ricorda sempre gli stessi episodi, o almeno, pronuncia sempre gli stessi episodi. 
Credo che ve ne siano altri, nei suoi pensieri e credo che siano solo suoi. Immagino.

Mia madre non mi ha mai raccontato del 25 aprile. Della liberazione. Per questo io non so niente del 25 aprile. Mio padre non mi ha mai raccontato niente del 25 aprile e non lo ha fatto neanche mia madre. E se lo hanno fatto non stavo ascoltando.

Mia madre e mio padre raccontavano sempre del 31 agosto del 1943, non del 25 aprile del 1945, ma del 31 agosto 1943, quando Pisa venne bombardata. 
Mia madre dice che morirono 5000 persone in cinque minuti. Non so se il dato corrisponda a verità e non mi interessa. 

Quel giorno mia madre era in casa con sua madre, che poi sarebbe divenuta mia nonna, la nonna Cesarina, ed una cugina incinta. Una cugina di La Spezia, incinta. 
Non so come si chiamasse questa cugina. Non l’ho mai domandato. Se mia madre me lo ha detto, e di certo me lo ha detto, l’ho dimenticato. Forse non stavo ascoltando. Forse non stavo ascoltando abbastanza.

E’ il 31 agosto del 1943. E’ agosto e fa caldo e mia madre con sua madre e questa cugina incinta di La Spezia stanno in una casa nella zona della stazione. 
Possiamo immaginare che le finestre siano aperte. E’ agosto. fa caldo.
Mia madre racconta che in quel periodo suonava spesso l’allarme antiaereo ma poi gli aerei non arrivavano mai. Così, come fanno le persone di solito, mentre ai primi allarmi tutti correvano nei rifugi a tremare aspettando le bombe, dopo un po’ al rifugio smisero di andare.

Suona l’allarme, di nuovo. E’ un’abitudine. Una precauzione, grazie del pensiero ma tanto si sa che poi non arriveranno aerei americani a bombardare.

Gli americani, in quel momento della storia sono, i buoni. 
Rimarranno i buoni fino ad oggi, con qualche alto e basso dovuto alla guerra del Vietnam, a qualche colpo di stato nell’America latina, alla guerra a casaccio in irak, la seconda dico, alle stragi ai matrimoni con droni in Afghanistan, alle torture di Abu Graib, a quelle di Guantanamo. Comunque pure i buoni hanno i loro difetti. Il bene puro non esiste si deve prendere quello che passa il convento, e poi ai buoni si perdona tutto. 

In quel momento però gli americani sono proprio buoni, anche perché spesso il bene si definisce paragonandolo a un male, affiancandolo e guardando le differenze e, diciamolo, quando dall’altra parte hai il terzo Reich, essere buoni diventa un’operazione abbastanza facile, naturale, diciamo, a meno di non avere simpatie per Alba Dorata.

Quindi mia madre e la cugina e quella che sarebbe diventata, nel 1963, mia nonna, sono in questa casa calda in zona stazione. 
Gli americani invece sono su nel cielo con i loro B29 o B52 o B qualcos’altro ma mia madre ricorda bene il nome di quei B qualcosa, le Fortezze volanti. Tante volte mi parlerà delle Fortezze volanti. del rumore inconfondibile delle Fortezze volanti.

E’ agosto, fa caldo, la cugina incinta se ne sta là con il suo pancione e ho l’impressione di vedere queste tre donne attraverso una finestra. Immagino una tendina che svolazza alla finestra, è semitrasparente e giallina, questa tendina che svolazza alla finestra. Loro sono lì.

Secondo la teoria dei multiversi in ogni istante della nostra vita, in un universo parallelo, si verifica ogni condizione possibile, quindi immagino che in uno degli infiniti universi paralleli in quel momento, in quella casa, una caffettiera soffi e fischi e annunci il caffè. In quell’universo parallelo le tre donne siedono a un tavolo, parlano del bambino che nascerà, la futura madre sorride e si lamenta del marito pigro.

In quell’universo parallelo l’allarme antiaereo comincia a suonare e si commenta che di nuovo suona questo inutile allarme antiaereo che per fortuna, grazie a Dio, non succederà niente neanche stavolta. Grazie a dio.
Dio, devo dire, con la questione dei multiversi, gli universi paralleli, potrebbe avere qualche difficoltà di collocazione, ma questa è un’altra storia. 
Finisce l’allarme, torna l’afa silente di quel 31 agosto, in quell’universo parallelo. 

In quello che è toccato in sorte a noi, adesso, in questo, arriva un rombo in cielo.
Mia madre dopo tutti questi anni continua a ricordarlo quel rombo e dice: era il rumore inconfondibile delle fortezze volanti.
Nelle pance delle fortezze volanti, dovete pensare, ci sono tonnellate di bombe. 
Quelle bombe, che sono però bombe dei buoni, sono state costruite in fabbriche degli Stati Uniti da tanti operai che a modo loro, hanno servito la causa dei buoni. 
Queste persone, in quel momento, immagino, avranno già dimenticato il momento esatto in cui hanno confezionato una delle bombe che adesso stanno nella pancia della fortezza volante che proprio adesso, in quel 31 agosto, sta volando perpendicolare sulla casa di mia mamma, vicino alla stazione. 

Sono abbastanza sicuro che quelle buone persone, in quel momento, abbiano dimenticato il giorno in cui hanno confezionato quella bomba, apponendo l’ultima vite, l’ultimo ribattino. 
Adesso quella bomba è così lontana. Oltre l’oceano, su una nazione pittoresca, nella pancia di un aereo, vola. 
Si aprono i portelli.
Penso che pure il soldato giovane e giocherellone ben determinato a contribuire alla vittoria del grande paese che gli ha dato i natali abbia dimenticato la frase che con un gesso ha voluto scrivere su quella bomba.
Questa è una cosa che gli uomini fanno. Scrivono messaggi sulle bombe. Roba come: “Ciucciati questa Adolfo!” o “Saluti dal Wisconsin” immagino.
Non c’è nessun Adolfo in quella casa nel quartiere della stazione. Sono tutte donne. Tre donne. Una è incinta. Una è mia madre. Una sarà mia nonna. Vent’anni dopo.

Immagino che vi siano degli Adolfo nei paraggi, dei piccoli bambini Adolfo, di certo ci sono molti Benito. Gli Adolfi sono rari. 
Non so voi ma io non ho mai conosciuto nessuno che si chiami Adolfo. Non credo che sia un caso. E in effetti non ho mai conosciuto neppure nessuno che si chiami Benito, ma credo che questo dipenda dalle frequentazioni che mi sono scelto. Una volta ho conosciuto un cane, un piccolo cane di piccola taglia, tutto nero, che il padrone aveva voluto chiamare Benito. Sono gusti.

Non ci sono Adolfi o Beniti nella casa di mia madre quando le pinze meccaniche che reggono la bomba nella pancia della fortezza volante allentano la presa.

Dov’è mio padre in quel momento? Nella casa sono solo donne. Mio padre è in ponte di mezzo, mi racconta. Mio padre lavora nel negozio di suo padre, quello che sarà mio nonno e che non conobbi mai. Mio nonno si chiamava Alfonso e di lui porto solo traccia nel nome. Mi hanno chiamato Gian Alfonso, per ricordarlo. Memoria del nome. 

Ma non so quasi niente di lui. Anzi sì, so che era un uomo intelligentissimo. 
Così ne parla mia madre. un uomo intransigente, difficile di carattere ma al quale mia madre sapeva tener testa. Perché “era intelligentissima anche lei”, dice mia madre e tra intelligentissimi ci si riconosce al volo e ci si teme.

Intelligentissime sono le bombe, i missili, che partono dai droni dei buoni americani dell’era moderna. Quando in Afganistan, per esempio, cadono su un matrimonio di innocenti, lo fanno per errore. 
Gli intelligentissimi, per quanto molto utili alla società, non sono al riparo dagli errori. Si sa.

Stupide erano invece le bombe del 1943. Stupida è la bomba che con un fischio straccia le poche nubi d’un cielo azzurro di un agosto pisano. Il cielo è azzurro per chi guarda in alto. 
Mio padre in quel momento guarda in alto e il cielo è azzurro con due nubiciattole ininfluenti e quindi vede gli aerei, punti in cielo, vede, sente, diciamo, le bombe cadere. 

Per il puntatore addetto allo sgancio delle bombe sulla fortezza volante invece il cielo semplicemente non è. 
Rannicchiato nella sua posizione, occhio incollato al visore lui vede solo la terra. E quella terra è incroci di strade e linee e un fiume e una riga scura che è la ferrovia, parallelepipedi indistinti sono le fabbriche, gli edifici, la Saint Gobain, la stazione ferroviaria, i suoi obiettivi.
Memoria.

Ricordo ora che nel racconto di mia madre c’è una quarta persona. Perché l’ho dimenticata? E’ così importante. Ho visto una foto. Solo una. C’è solo una foto o almeno io ne ho vista solo una. E’ il padre di mia madre. Quello che sarebbe potuto essere mio nonno. Un altro nonno.

Dai racconti di mia madre so che è un uomo taciturno, che non parla mai e che mia madre lamenta di non essere riuscita a conoscere davvero.
Non so niente di lui. Sembra che nessuno sappia niente di lui, ma credo che sia stato amato, mia nonna Cesarina restò vedova per sempre. Forse non lo dimenticò mai. Forse non era solo taciturno e duro come dice mia madre, doveva avere delle qualità. Ho visto una foto. Abbiamo la stessa fronte.

C’è anche mio nonno in quella casa con le tre donne. Ai fini di un organizzazione estetica dei miei ricordi era stato escluso, ma diciamo che entra in scena adesso, lo vedo attraverso la finestra con la tendina che svolazza. Forse era in una camera a riposare, mio nonno è un ferroviere. Forse l’allarme lo ha svegliato. 
Suona l’allarme e nessuno vuole preoccuparsi perché questo allarme suona da mesi e non succede mai niente ma mio nonno non ci sta. Dice che si deve andare al rifugio. Ma no, questo allarme suona sempre e non succede mai niente e poi fa caldo e la cugina è incinta. Vedo una discussione in quella cucina. 

Mio nonno si impunta, prende la figlia, mia madre, e la porta fuori, verso il rifugio. 
Le altre due donne restano in casa. E non c’è tempo. Arriva il rombo degli aerei, non c’è tempo per andare al rifugio. C’è un ricovero per conigli. Mio nonno infila la giovane figlia, mia madre diciottenne in quel rifugio, in mezzo ai conigli. Vedo le orecchie dei conigli, vedo mia madre accucciata tra i conigli, vedo mio nonno accucciato con mia madre tra i conigli. 
Il cielo è pieno di motori di aereo. 

E poi c’è quella bomba. Ricordate, quella bomba con qualche saluto dal Wisconsin che scende dritta dal cielo? Ci sono altre bombe sorelle che scendono con lei ma in questo ricordo ci concentriamo solo su una. Quella bomba, dall’occhio del puntatore addetto allo sgancio delle bombe scende verticale sulla casa di mia madre. Sulla casa di mio nonno. Sulla casa di mia nonna. Sulla cugina di La Spezia incinta. 
La bomba centra il tetto. Lo buca. E quando lo fa, non so esattamente con quale coordinazione di momenti ma mio nonno se ne avvede, insomma vede una bomba che gli centra la casa, con la moglie dentro. 
La figlia è accanto a lui, in un rifugio per conigli di lamiera e rete di ferro.
Così si alza in piedi mio nonno, lasciando il riparo, per dire due parole. 
Questo mi racconta mia madre. Nonno si alza e dice “la mamma”. Non dice la moglie. Dice la mamma. Altri tempi.
Dice questo. Poi la bomba colpisce la casa, esplode e lancia uno schiaffo d’aria mossa che spazza via il giardino intorno, fino al rifugio per conigli e come una grande mano invisibile e letale spazza via mio nonno. 
Inizia la danza. 
Che figata la guerra. 
Cadono bombe tutto intorno, crollano case, l’aria diventa polvere, timpani stracciati e grida e fuoco. 
Crolla il rifugio per conigli, si attorciglia e fonde, la rete diventa quello che alla fine, almeno per i conigli è sempre stata: una gabbia. 
Mia madre, chiusa, nella gabbia, viene schiacciata da detriti, lamiere, cemento e pietre rilasciate nuovamente dal cielo, strappate dalle case circostanti. Tutto diventa buio.

Mio padre vede le bombe cadere in ponte di mezzo. Ma sono distanti da lui. Quello che lo accoglie quando arriva in corsa, perché questo dice nei suoi racconti, che lui va verso le esplosioni, non si allontana. O forse prima si allontana e poi torna, quando le esplosioni si sono placate e Pisa è una rovina ammantata in una nuvola di polvere. Lui mi racconta di questa polvere, questa nuvola che noi moderni abbiamo potuto vedere, per esempio, credo, in forma similare, nei filmati dell’11 settembre del 2001, in televisione.

Mio padre va verso questa lenta tempesta di polvere che avvolge il ponte e mi dice che da quella polvere, dal fumo, sul ponte, vede spuntare degli uomini con la testa tutta gonfia e nera.

Io sono un bambino la prima volta che ascolto questo racconto. Mio padre in quel momento, nella cucina della nostra bella casa a portallucca probabilmente non lo sa, ma sta formando la mia immaginazione con quel racconto di morte e il fascino che quella memoria avrà sul mio cervello in formazione mi condizionerà forse per sempre, facendomi preferire, da allora, forse per sempre, il racconto delle cose alle cose.

Dice mio padre, che chiamerò S. per comodità di narrazione, dice che dal fumo che in quel momento sta avvolgendo il ponte spuntano degli uomini con la testa tutta gonfia e nera. Quando lo racconta S. mima il movimento di queste persone, perché questi uomini che spuntano dal fumo con la testa tutta gonfia e nera si muovono così. E ondeggia, piano.
Adesso potremmo dire che si muovono come gli zombie dei film di zombie prima che gli zombie dei film di zombie mutassero e diventassero rapidissimi e rabbiosi. Come gli zombie di un tempo, i bei zombi di una volta, che si muovevano piano, ondeggiando, nei supermercati.
Memoria.
Così S. mi dice, mimando, che dal fumo che in quel momento sta invadendo il ponte, spuntano degli uomini con la testa tutta gonfia e nera.
Barcollano e cadono giù.

Uno di questi uomini, mi dice S. cade seduto con la schiena appoggiata a un muretto, forse il muretto era una spalletta dell’Arno, non lo so. 
S. dice, che quest’uomo cade con la schiena appoggiata ad un muretto, un muretto normalissimo ed S. si avvicina e vede che nella testa dell’uomo c’è un buco grande come un pugno e accanto all’uomo seduto per terra con la schiena appoggiata al muretto c’è una roba che S. riconosce essere cervello. Il cervello dell’uomo uscito dal buco che ha nella testa. 
Che figata la guerra.
S. indugia e mi racconta che non si spaventa, si avvicina invece, e vuole aiutare quest’uomo e l’unica cosa che gli viene in mente di fare (S. non è un dottore, lavora con suo padre, mio nonno, in un negozio di ottica in corso Italia non sa niente di cervelli fuori dalla scatola cranica) l’unica cosa che gli viene in mente di fare è di raccogliere questa roba da terra, questi pezzi di cervello e provare a rimetterli al loro posto, attraverso il buco. 
Poi l’uomo con la testa tutta gonfia e nera, finisce la sua vita lì. Con il culo per terra e la schiena appoggiata ad un muretto normalissimo.
Chissà chi era, quell’uomo. Chissà cosa è diventato, in un universo parallelo.
Però, dice S. mio padre, è stato meglio per lui. E’stato meglio che sia morto, visto lo stato in cui era in questo universo.

S. si rialza. Polvere e fumo si stanno diradando e lui si guarda intorno, guarda la città e non la riconosce più. Mi dice che incroci e strade non ci sono più. Sembra azzerata la geografia, i punti cardinali, le direzioni, l’orientamento, è tutto andato a puttane. Non si capisce niente. Dov’è il suo amore, quella che sarà mia madre. E’ nel quartiere della stazione, le stazioni sono obiettivi militari, hanno bombardato la stazione.

S. quindi corre in questa città che non si riconosce più e va verso la casa della sua fidanzata. E la casa, anche quella non c’è più e il suo cuore si spezza in uno spezzarsi di migliaia di cuori tutti nello stesso momento e adesso mi viene da domandarmi se quel rumore, se quello spezzarsi di tanti cuori di tante famiglie tutte nello stesso momento non abbia prodotto un qualche suono, un rumore, un crac tangibile, anche su, nell’alto dei cieli, fino alle orecchie dei buoni che nelle loro fortezze volanti stanno adesso virando, mentre parlano via radio, mentre tornano alla loro casa temporanea, alla base di partenza, nel nord Africa, contenti che sia andato tutto bene. Obiettivo centrato, si torna a casa.

La teoria dei multiversi dice che tutto succede in ogni istante in ogni possibile combinazione di eventi, all’infinito. Quindi in un altro universo parallelo, la bomba sulla casa di mia madre non cadde mai. In un altro cadde e miracolosamente non esplose, in un altro ancora esplose uccidendo tutti, in quel multiverso io non esisto, voi non siete qui ad ascoltare questo racconto.

Eppure, mi viene da pensare ora, non c’è bisogno di scomodare la teoria dei multiversi per immaginare che, a volte, nello stesso universo possano convivere realtà differenti e distanti. Gli avieri dello stormo di bombardieri tornano verso la loro base in nord Africa. Non hanno avuto resistenze. Minima contraerea, nessun caccia Messerschmidt tedesco o goffi intercettori Caproni gli hanno cagato il cazzo. Tutto bene. E’ andato tutto bene. Si torna a casa. Un altra vita. 

Mentre S. trova la casa della fidanzata crollata e pensa: è morta. Nella confusione, nelle grida, si sono soldati tedeschi che scavano e aiutano i pisani a estrarre feriti e morti dalle macerie, con una naturale priorità per i feriti e buona pace per i morti.
C’è un soldatino tedesco. Così viene chiamato nei racconti di famiglia. Un soldatino tedesco scava e trova mia madre. E mio padre arriva in quel momento e insieme al soldatino tedesco scava pure lui e mia madre è viva. Non ha niente, solo un graffio ad un gomito, il gomito, sul braccio, le è rimasto fuori dal gabbione dei conigli e si è graffiato.
La casa invece non c’è più.
Chissà chi era quel soldatino tedesco.

E allora si corre a quel che resta della casa e si trova la nonna, che è ferita, ma è viva. In un universo parallelo, nonostante l’esplosione, è viva anche la cugina di La Spezia e non ha neppure perduto il bambino, è andato tutto bene. La casa si ricostruirà, nascerà un figlio che crescerà, darà grandissime soddisfazioni e addirittura, una volta cresciuto, si farà dottore e pensate un po’ sarà proprio lui a guadagnarsi quel gran premio per la medicina,  per quella incredibile scoperta meravigliosa per la cura dei tumori.

In questo universo, in quello dove io leggo e voi ascoltate, la cugina di La Spezia è morta.
In questo universo il padre di mia madre non si trova più L’ultima volta che questo universo lo ha visto si stava alzando in piedi e diceva “la mamma”. Ora non c’è più. Non si trova più . 
Lo spostamento d’aria lo ha portato via. Come una foglia.

Mio padre ha una sorella forte, si chiama Alfonsa, in questo universo ha figliato quelli che sono i miei cugini e pure loro sono forti e belli e negli anni, poi hanno figliato anche loro e, indovinate un po’, hanno avuto figli altrettanto belli e forti.
La sorella di mio padre si chiama Alfonsa ed è con lei, che è forte d’animo e non ha paura di niente che mia madre comincia a cercare il padre rapito dallo spostamento d’aria.

Mia madre mi racconta che a sera, infine, si trovarono a cercarlo tra i morti. C’erano questi corpi stesi, non mi ha mai detto dove o se lo ha detto, non sono stato attento, c’erano questi corpi stesi a terra coperti con dei lenzuoli e mia zia Alfonsa andava sollevare i lenzuoli per vedere se trovava mio nonno, il padre di mia madre. Mia madre mi dice che questa cosa del sollevare le lenzuola, la faceva la zia Alfonsa, che è una donna forte, perché lei, mia madre non ce la faceva. Non ce lafaceva a sollevare un lenzuolo.

Mio nonno non stava là. 
Finiti i lenzuoli, c’erano solo cari di altri. Altre lacrime, ma non quelle di mia madre. Mio nonno venne trovato in un ospedale. Qualcuno lo aveva trovato e lo aveva portato là.
Mia madre dice che non aveva niente, sembrava intatto. Non aveva niente fuori, ma lo spostamento d’aria lo aveva fracassato dentro. Questo fanno le bombe, anche quando non ti colpiscono personalmente. 
Non so quanti giorni dopo morì. Mia madre di sicuro me lo ha detto ma devo averlo dimenticato. 
Memoria.
Comunque nonno, morì.

Una volta portai mia madre a mangiare in un ristorantino a dieci euro dove vanno quelli che lavorano alla Saint Gobain e che  mangiano alla svelta, pagano dieci euro e se ne tornano al lavoro. Lei si mise a raccontarmi di quel 31 agosto. 
Mia madre non mi ha mai raccontato niente del 25 aprile. Mi ha sempre raccontato del 31 agosto. 
Ora io sono qui ed ho la netta sensazione di essere venuto nel giorno sbagliato.

Era la millesima volta che mi raccontava del bombardamento ed era la prima volta che io le rispondevo con una domanda. Volli chiederle come si era sentita dopo. Insomma, tu sei a casa, immaginate, siete a casa vostra, con qualche parente, caffè sul fuoco, agosto, aria calda che entra dalla finestra, tendina che svolazza, chiacchiere, progetti, mal di testa, magari, non lo so. Siete lì che fate quella cosa che facciamo sempre, tutti, anche quando non ce ne rendiamo conto, siete lì e state vivendo. E poi, dal cielo, altre persone, in tutto e per tutto identiche a voi, appartenenti allo stesso multiverso, con le stesse gambe, le stesse braccia, la stessa faccia, vi lasciano cadere una bomba sulla casa. 
Come ti senti dopo?

Una volta mia madre mi disse che non si aspettava che la casa sarebbe stata bombardata. Eppure c’era la seconda guerra mondiale. Non era nei libri, era intorno a lei. 
C’era quel cazzone intronato con i baffetti che aveva deciso di dominare l’europa e sterminare ebrei, zingari, omosessuali, ogni tipo di dissidente, insomma c’era la seconda guerra mondiale eppure lei non si aspettava che le bombardassero la casa. 
Ora dico io, va bene pensare sempre di essere speciali, ma bisogna essere stupidi per, come dice lei, stupirsi che una bomba a un certo punto ti centri la casa.
Ricordo che quando mia madre mi parlò del suo stupore pensai questo. Che fosse stupida. Poi, detti un morso a un pezzo di schiacciata, la guardai, spaesata e vecchia tra gli operai, e mi fermai e pensai che avesse ragione. Che era giusto il suo stupore. Come può un’ altra persona, identica a te in tutto e per tutto, tirarti una bomba sulla casa?

Leggendo storie della guerra dei balcani ho trovato testimonianze di persone che riportano lo stesso stupore. Da un giorno all’altro una guerra tra vicini di casa. Com’era possibile? 
Quel giorno, al ristorantino a dieci euro le chiesi come si era sentita dopo che la bomba aveva centrato la casa, uccidendo suo padre, la cugina e il bambino che portava in pancia, ferendo gravemente sua madre?
Lei mi rispose che aveva, da allora, cominciato a odiare tutto e tutti.

Mi disse anche che poi mio padre, il suo fidanzato di allora, la portò nella sua casa, con tutti i suoi fratelli e i suoi cugini e che quella casa era una casa allegra, dove le persone scherzavano sempre e sembravano non abbattersi mai, neppure in quei momenti, e c’erano un sacco di sorrisi e di affetto. 
Mi disse che quella casa, quelle persone con la loro allegria, nonostante tutto, le fecero ritrovare un po’ di pace. 
Che figata la pace.

Mia madre ha amato mio padre fino ad ora. Almeno, fin quando l’ho sentita, mezzora fa. Lo ha amato per sempre, credo si dica così.

Non ho mai saputo cosa hanno fatto il 25 aprile. Credo che non lo abbiano mai raccontato perché erano cazzi loro. Uno di quei ricordi che sono sicuro mia madre si porti nel cuore o in qualche posto della memoria alla quale noi figli non abbiamo accesso. Ma così, ad occhio, a pensarci adesso, secondo me, hanno festeggiato.




aprile 25, 2014

Il Landucci e il M5s alle europee


Pomeriggio standard di ragazzini. Bicicletta, nel caso mio fieramente da cross, presa al Camp Darby, la base militare americana, a Tirrenia. Presa grazie al padre di Steven, il mio amico americano, figlio di un pastore militare. Grazie a lui ai piedi ho le prime All Star alte di tutta Pisa. Cazzo, me ne vanterò per sempre. E non parlerò del primo skateboard. 
Steven, il mio amico l’americano, è in quel momento, l’apice della modernità nel mio quartiere. Io gli sto accanto e godo di riflesso con oggetti, parole, modi di dire. 
I giorni in cui lui comincerà a chiamarmi Ureccia, per via delle orecchie a sventola ed io “La bodda” per il suo sovrappeso, sono ancora lontani. 
In quel momento siamo molto amici. 
Abbiamo dodici anni. 
Pomeriggio standard di ragazzini. C’è sicuramente Alberto. Forse Vito, che in quel momento è il più basso di tutti e con gli anni diventerà forse il più alto, specializzandosi come medico che fa nascere bambini alle coppie che hanno difficoltà nel concepire.

Nella mia memoria siamo nelle vicinanze del passaggio a livello che divide il quartiere di Portallucca da quello de “I passi”. Portallucca è il quartiere dei benestanti, “I Passi” quello dei malestanti, e come un prodromo di quel che sempre più assomiglierà alla società moderna, sono divisi da una ferrovia. Ricchi da una parte, poveri dall’altra. 
Su questa ferrovia ci sono passaggi a livello con tempi lentissimi. Cominciano a mandare suoni di campanella con dieci minuti di anticipo. Si formano code di auto. Solo uno di questi passaggi a livello è di ultima generazione e rapidissimo. E’ qui che siamo, nel mio ricordo. Lo ammiriamo, domandandoci se esistano dei sensori sui binari che si attivano al passaggio del treno. 
Un minuto prima che arrivi il convoglio le sbarre si chiudono. Dieci secondi dopo che è passato, si riaprono. Ammiriamo la modernità, sulle nostre biciclette, un piede a terra, l’altro sul pedale, ingobbiti sui manubri pronti allo scatto.

E poi qualcuno di vedetta, come un suricato di città, lancia l’allarme. “Il Landucci!”, grida.
Il Landucci è un vecchio. Di lui niente si sa. Solo che passa, a volte, sulla via del passaggio a livello con una vecchia bici da uomo con freni a bacchetta. Una bici vecchia, che in quel momento non ha ancora il fascino del vintage. Il Landucci è un vecchio, su una bici da vecchio, con una borsa di cuoio messa a canna della bici. Una borsa vecchia e schifosa, come lui. 
Non sappiamo che mestiere fa, non sappiamo perché pedali tutto curvo in quel modo, se le sue notti e i suoi risvegli sono accompagnati dagli scricchiolii del mal di schiena, non sappiamo se ha figli, una moglie, se ne ha avuta una, se l’ha perduta, se ha pianto, se è rimasto solo. Che lavoro fece il Landucci? Fu impiegato? Costruttore, operaio, commerciante? Non sappiamo niente di lui.
Quello che sappiamo invece è che ogni volta che arriva, con la sua andatura dondolante, sulla vecchia bicicletta, qualcuno lancia l’allarme e noi, tutti noi ragazzini, veniamo presi da una furia irrefrenabile. 
Il Landucci non può attraversare illeso la nostra zona. Questo non è ammissibile. Perché è vecchio e forse malato ed è, a pensarci adesso, forse, un futuro possibile che nessuno di noi vuole vedere.
Non sappiamo niente del Landucci ma la sua semplice esistenza ci disturba. Se al mondo non esistessero Landucci, vecchi claudicanti con biciclette arrugginite noi potremmo immaginare di restare adolescenti per sempre, potremmo ignorare i processi che portano il ferro immarcescibile e immortale ad ossidarsi, sgretolarsi e svanire addirittura, nei decenni.
Il Landucci è la negazione vivente della nostra illusione di immortalità. 
Questo penso ora, non lo pensavo allora, è chiaro. Ero un ragazzino su una bici da cross gialla e le prime All Star alte ai piedi. 

Quando vediamo il Landucci scendiamo dalle bici. Cerchiamo dei sassi. Gli tiriamo i sassi urlandogli contro.
Ricordo che non lanciamo offese. Solo sassi e il nome. Gridiamo “Landucci!” e via sassate, come se in quel nome fosse contenuto tutto, un pacchetto completo di vecchiaia, malattia, debolezza, tempo perduto, tutto insieme. Una cosa che odiamo. 
“Landucci!” e sassate.

Non esiste, penso ora, una parola che il Landucci potrebbe pronunciare per fermarci. Non esiste un gesto. Potrebbe fermarsi, scendere, o scappare, non cambierebbe niente nella nostra percezione. Potrebbe avvicinarsi, parlarci, spiegarci, raccontarci tutto di se. Non lo perdoneremmo comunque.
Landucci! gridiamo. E sassate.

Me lo ricordo bestemmiare, imprecare contro il mondo nuovo che è costretto ad abitare. Un mondo diverso da quello in cui è cresciuto, un mondo in cui non c’è rispetto o comprensione per i vecchi, i deboli, i malati. Un mondo che ha modi e gusti incomprensibili. Questo è il mondo in cui, povero Landucci, gli è toccato di invecchiare. Maledetto il mondo.
Maledetto il mondo e maledetti noi. Ci maledice mentre pedala. Si incurva ancora di più sul manubrio della bicicletta per evitare i sassi e ci maledice, cercando di raggiungere un punto ics dove ci stancheremo di perseguitarlo. Una zona sicura.

Mai. Mai avrei immaginato, allora, che sarebbe arrivato il giorno in cui sarei finito dall’altra parte della specie umana. Saremmo stai giovani per sempre, io e i miei amici, non perché lo desiderassimo ma perché ci era sconosciuto il pensiero stesso dell’età, del tempo che passa. Eravamo energia pura, un energia azzurra, immortale, fatta della stessa materia del vento e delle onde di Marina. Non c’erano pensieri proiettati in avanti nel tempo, eravamo presente fatto carne. Comunque assolutamente, inevitabilmente vincenti. Nessuno di noi era malato gravemente, non c’erano dolori del risveglio, circolazioni sanguigne difettose, problemi con gli zuccheri, melanconie immotivate. Eravamo azione pura. Convinzione pura.

Ho scritto queste parole dopo aver visto il video dell’inno del M5s per le elezioni europee. Me ne vergogno, perché altre motivazioni si dovrebbero avere per scrivere cose che altre persone, fossero solo due, forse leggeranno.
Ma è andata così. Voglio raccontarvelo: Nel video si vedono tante persone che sbattono i pugni sul tavolo. C’è una canzone che accompagna questi pugni. Un montaggio fatto con spezzoni inviati dai vari sostenitori e simpatizzanti in giro per l’italia. Nel sottopancia del video ci sono impressi i luoghi di provenienza. Livorno: pugni sul tavolo. Cosenza: pugni sul tavolo. Roma: Pugni sul tavolo. Singoli, coppie, famiglie.
E’ un montaggio, un videoclip su una canzone che parla del bene e del male. Quelli che hanno fatto il video rappresentano il bene e la voce cantante sottolinea, nel ritornello: 

E sbatterò i miei pugni su quel tavolo
e urlerò tutta la rabbia che c'è in me
E lotterò con le mie forze contro il diavolo
del dio denaro che ha corrotto le anime”

Il diavolo. Le anime. Quando ho visto il video ho subito avuto un moto di fastidio. Tutti i pugni sul tavolo dovevano stare a tempo con il rullante della batteria, era chiaro l’intento, ma non ce n’era neppure uno che ci stesse giusto. 
Visto che mi diletto di montaggio e sono un precisino, mi sono subito girate le palle per questo.
Non ci vuole davvero niente a fare un montaggio mettendo i pugni sul tavolo a tempo con la musica. E poi, insomma, non si era deciso che le cose fatte bene sono meglio di quelle fatte male?
No. Fatto bene e fatto male sono diventate condizioni soggettive.
Poi mi sono girate le palle per la questione del Diavolo e delle anime perché continuo a coltivare il sogno di una società laica basata sulla razionalità dove il Diavolo e l’anima possono tranquillamente togliersi dai coglioni.
E poi mi sono girate le palle per la somiglianza degli atteggiamenti con i famigerati spot di Italia 1, dove spettatori anonimi, gente comune, si prodigava nell’inventare modi per pronunciare quelle due parole: “Italia Uno!” appunto, nel modo più singolare e curioso possibile.
Nel video accadeva la stessa cosa. Qualcuno muoveva le labbra, timidamente, sul testo della canzone. Una ragazza ballava come una ballerina di tv, altri facevano facce buffe o espressioni accigliate. E poi via, al momento sbagliato, anche se di poco, sempre sbagliato, a sbattere i pugni sul tavolo.
Quasi nessuno sbatteva i pugni con sincera energia. Appoggiavano i pugni sul tavolo, fieri e fuoritempo.

Avendo il vizio di Facebook ho voluto postarlo subito e mi sono messo a spremermi le meningi per trovare una battuta acuta e ficcante. Non me n’è venuta nessuna.
Ho passato minuti a pensare. Che spreco di tempo.
Ho avuto anche paura perché, al di là della bassa qualità del video, delle note, della voce cantante, delle mossette dei partecipanti, percepivo un odore di vittoria imminente.
Il famoso profumo di vittoria. Immagino.

I simpatizzanti del M5s tra gli altri modi di dire più diffusi, usano lo slogan “Vinciamo noi”. Credo che ci sia un punto esclamativo al termine dell’enunciato. “Vinciamo noi!”. 
In quel momento, vedendo il video, ho pensato che sì, era vero. Avrebbero vinto loro, qualsiasi cosa questo significasse.
Ho sbagliato il verbo, non avrebbero, avevano vinto loro. Avevano vinto perché erano perfettamente assolutamente contemporanei, fatti di una pasta e dotati di un gusto che mi risulta incomprensibile e forse per questo tanto mi disturba. 
Provai sensazioni simili nel 1994, quando Silvio Berlusconi vinse le elezioni ed io vidi, per la prima volta, i suoi sostenitori in Tv, persone tanto diverse da quelle che avevo in uso di frequentare. Persone con modalità di pensiero e gusti, che non riuscivo a comprendere e che, di conseguenza, disprezzavo.
Ho disprezzato, allo stesso modo, ognuna di quelle belle facce di persone di buona volontà che sono apparse nel video. Tutti quanti, anche i bambini. Ho detestato le capigliature, le basette e le barbe ricamate, gli aspetti curati, quelli trasandati, tutto quanto. Anche gli arredamenti sullo sfondo e le luci giallastre.
Ed è stato allora che sono diventato il Landucci. Mi sono sentito vecchio, in un mondo che genera atteggiamenti e modi che non capisco e che disprezzo.
Ho sentito le pietre future volarmi a pochi centimetri dalla testa. Quelle pietre erano gusti e modi che non comprenderò mai.
Il futuro prospettatomi dai movimenti, dalle espressioni delle persone presenti in quel video, mi faceva paura. Li ho immaginati al potere.
Ho preso la bicicletta allora e ho cominciato a pedalare per andare da un’altra parte. Una zona sicura.
Ho avuto l’impressione di sentire delle voci: Il Landucci! Dagli al Landucci!.
Io sono il Landucci. 

Così imparo.

gennaio 20, 2014

Ricerca di base

Nuova storia: "Ricerca di base". 
L'amore come esperimento scientifico.
Anteprima dal primo capitolo. 






gennaio 04, 2014

Le due cose che so sul cancro

Devo dire che sono molto fortunato. Quattro volte mi hanno spedito a fare esami per sapere se ci avevo un cancro e mai lo avevo. Una volta alla vescica, due volte al cervello, una volta al fegato.
Mai lo avevo.
Il cancro è venuto, invece, a mia sorella Annalisa.
Quindi del cancro adesso so due cose: quanto fa paura temere di averne uno e quanto fa più paura quando invece si ammala una persona a te cara.

Poi mia sorella è guarita ma noi riscopriamo ogni volta la nostra vicinanza quando qualcuno (sui social sopratutto, perché dal vivo le labbrate partono prima) fa un pippone sulle cure alternative o i "motivi" per cui ci si ammala di cancro.

Oggi mia sorella, sulla questione ha scritto una cosa che trovo molto bella.
La metto qui sotto. Esperienza, parole e titolo sono sue.

Perchè ogni spesso sarei propensa agli insulti

Annalisa Pacinotti
Premessa: io il cancro me lo sono meritato tutto.
Ho mangiato salumi e burro e bevuto aperitivi e tirato mattina in locali fumosi . Ho anche abusato di qualche droga ed amato  la musica rock. Ho raccontato un sacco di bugie , detto parolacce , mi sono tinta i capelli di mille colori e ho fatto forca a scuola. Ho anche preso l’oki quando mi veniva il mal di testa e non mi è mai piaciuta la minestra di verdura
Perciò tranquilli, non parlo per me. Io il cancro me lo son meritato tutto. E forse avete ragione voi, la mia esistenza non vale quella di tutti quei topini che sono stati uccisi per trovare la cura giusta che m’ha consentito d’aver salva la vita.
Tra l’altro confesso, a me i topi fanno proprio schifo e non li uccido solo perché da morti mi fanno ancor più ribrezzo che da vivi, ma se esistesse una sorta di veleno che li dissolvesse quando mi entrano in casa,senza che rimanesse in giro il loro cadaverino peloso e puzzolente, non esiterei ad usarlo.
Per cui ripeto, io il cancro me lo sono meritato, soprattutto se lassù nel cielo, a giudicare chi ha diritto a vivere sano e chi no , c’è il Grande Ratto Vendicativo.
Ecco, non sto parlando di me, ma di tutte le altre persone che ho incontrato nel reparto di oncologia quando seduta in poltrona giocavo a far finta di essere dal parrucchiere e invece mi sottoponevo alle due ore di chemioterapia che m’han fatto salva la vita.
C’erano persone d’ogni tipo ed età. Tranne i bambini, quelli affrontavano il loro percorso , e chissà di quali colpe s’erano macchiati i bimbi per meritare la malattia?, in un altro reparto.
Ho incontrato anziane signore, quelle che non ci piacciono, dall’aria stizzita e il collettino di pelliccia ( ecco, forse la causa del cancro stava in quel visoncino spelato che ornava i loro colli,) e vecchie contadine delle nostre piatte campagne con una vita rigorosa e sana alle spalle che  mi insegnavano a fare la torta di mele ( ma forse Dio è una Mela Renetta ed era per quelle torte che sedevano  vicino a me con l’ago infilato nel braccio)
Mi dispiace darvi una delusione ma c’erano anche alcune donne giovani, vegetariane, magre, che mai avevano bevuto una coca cola e ancor meno ingurgitato una salsiccia, e ancora con lo stupore negli occhi si interrogavano e dicevano “Perché proprio a me?”
Ecco, io il cancro me lo sono meritato tutto, ma loro no. E allora poniamoci un dubbio.
Forse la morte capita, così come la malattia, e se è vero che alcune situazioni ne favoriscono l’insorgere è troppo riduttivo ( e stupido e anche crudele) continuare a scrivere frasi come “ per non farsi venire il cancro basta cambiare stile di vita,” o peggio ancora  “ mi rifiuto di sacrificare la vita di quei poveri animali per curare qualcuno che non merita di vivere”.
Una volta ho fatto la Salerno Reggio Calabria  a una velocità, folle, su una macchina vecchia e insicura guidata da un pazzo che si nutriva a birre. Ero giovane, incosciente  e terrorizzata. Ne sono uscita viva, forse perché la morte capita  per caso e il Grande Ratto che sta nei cieli  ce la distribuisce così, senza guardare al merito.